Siamo condannati alla senescenza?
Da sempre l’uomo si interroga sulla natura dell’invecchiamento, sulla sua ineluttabilità e sul suo inarrestabile progredire, lento o veloce che sia.
Da altrettanto tempo sono innumerevoli i tentativi atti a scongiurare, bloccare e addirittura invertire questo decadimento che ci spaventa e ci ricorda che il nostro tempo non è infinito.
Eppure, malgrado gli sforzi e la ricerca delle più disparate soluzioni per combatterlo, l’invecchiamento (e il suo culmine, la morte) ci sembrano connaturati con la vita stessa e inscindibili da essa.
Ma le domande rimangono: siamo condannati a invecchiare? Esiste anche una sola, remota possibilità di affrancarsi dall’idea di nascere, crescere, invecchiare e morire? E ancora, perché la vita, nella sua natura incredibilmente complessa e ricca di brillanti soluzioni adattabili a qualsiasi contesto, non ci ha reso invulnerabili alla fine certa?
“Niente in biologia ha senso, se non alla luce dell’evoluzione”.
La risposta, come in tutti i campi attinenti alla vita, è da ricercarsi nell’evoluzione. Parafrasando il grande biologo Theodosius Dobzhansky, tutte le specie viventi, tutte le loro caratteristiche e le loro peculiarità sono (quasi) sempre il risultato della selezione naturale effettuata in un tempo più o meno lungo.
Questo motore silenzioso “preme” costantemente e premia gli individui più adattabili.
In altri termini, non esiste nulla in natura che sia “casualmente” così com’è, ma qualsiasi tratto distintivo o struttura specializzata in ogni essere vivente è (o è stata in un contesto precedente) vantaggiosa per la sopravvivenza
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Qualche esempio per chiarire il concetto:
- Gli occhi – strumenti incredibilmente raffinati per percepire una parte dello spettro elettromagnetico: vedere significa percepire le variazioni luminose intorno a sé e, ad esempio prevenire un attacco di un predatore o predare in modo più accurato.
- Un organismo anche con una singola cellula fotosensibile (plausibilmente la prima versione estremamente rudimentale e imprecisa dell’occhio moderno) possiede un vantaggio rispetto ai concorrenti completamente ciechi (“L’orbo in terra di ciechi” o, per dirla con le parole di Richard Dawkings, “Il mondo naturale offre, al proposito, numerosi esempi di un “occhio” più rudimentale e impreciso di quello dei mammiferi, ma non per questo inutile: alcuni unicellulari possiedono pigmenti fotosensibili, certi vermi e polipi presentano delle fossette che fungono da camera stenopeica per la ricezione della luce. Tutti questi potrebbero essere considerati come alcuni dei gradini inferiori nella scala dell’evoluzione del nostro organo della vista. Una vista del 5 per cento, per quanto debole, è comunque preferibile alla cecità assoluta e rappresenta, per l’animale che la possiede, un vantaggio evolutivo e con esso una maggiore capacità adattativa che genera a sua volta una più alta probabilità di riprodursi e propagare il gene vincente” –
- Il successo evolutivo della struttura oculare, in tutte le sue manifestazioni e declinazioni è tale che la stragrande maggioranza degli animali possiede sistemi di percezione dello spettro elettromagnetico.
- Il sistema immunitario – Da quando esistono i primi esseri pluricellulari esiste il problema di difendersi da agenti patogeni o da parassiti. La raffinatezza funzionale e la capacità discriminante tra self e non-self del sistema immunitario sono solo 2 della moltitudine delle armi a disposizione di uno degli apparati più affascinanti dei sistemi viventi. A partire dai più rudimentali invertebrati fino ai mammiferi, il nostro sistema di riconoscimento / difesa è uno degli esempi più esaltanti di come l’evoluzione abbia lavorato alacremente (sia dalla parte dell’ospite, sia dalla parte del patogeno) trovando soluzioni a dir poco brillanti: “Gli animali più veloci di tutti a evolversi sono i parassiti e i batteri patogeni, che devono affrontare la persecuzione infinitamente inventiva e sadica del sistema immunitario”
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- Il successo evolutivo del SI è tale da non permettere organismo vivente vertebrato o invertebrato che non ne possieda almeno una versione basilare (ma non per questo meno efficace per le proprie esigenze).
- Basti pensare che malattie genetiche che coinvolgono geni chiamati in causa nella risposta immunitaria come la Poliendocrinopatia autoimmune di tipo 1, spesso sono incompatibili con la vita (Avremo modo di approfondire questi aspetti nella sessione “l’immunoaging”)
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Potrebbero essere tantissimi gli esempi: la respirazione cellulare, il citoscheletro, i muscoli ecc. Tutta l’infinità di componenti o complessi strutturali il cui successo evolutivo è rappresentato e confermato dall’adozione da parte della quasi totalità degli esseri viventi.
Quindi anche l’invecchiamento e la morte, presenti ovunque in biologia sono “strumenti” che aumentano il successo evolutivo?
La risposta, per quanto controintuitiva, è affermativa.
Qual è il vantaggio evolutivo di favorire organismi programmati (tramite invecchiamento) alla morte?
- Il beneficio risiede nel fatto che condannando scientemente gli individui a morte aumenta il successo riproduttivo della specie. Alternativamente, e quindi in presenza di esseri viventi immortali, il tasso di mortalità sarebbe legato solo a eventi accidentali o a predazione, mantenendo una popolazione media per un tempo indeterminato in competizione con la propria stessa prole per il reperimento delle risorse nutritive. Tutto ciò risulterebbe in un ulteriore rallentamento della riproduzione e in un conseguente rimescolamento genetico insufficiente per competere con chi rinnova costantemente il proprio DNA e aumenta le proprie chance di adattamento.
- In presenza di esseri progettati per attivare l’invecchiamento e la morte invece, la medesima quantità di risorse sarebbe sufficiente per una popolazione non statica ma che si rinnova ciclicamente con successo.
- Conseguentemente, a un aumentato turnover riproduttivo corrisponde una maggiore ricombinazione genetica che funge da “carburante” per l’adattabilità e il successo evolutivo.
- In altri termini, l’evoluzione si auto-catalizza perché essa stessa è “un’assicurazione” sulla maggiore adattabilità della specie a eventi destabilizzanti e a futuri cambiamenti di condizioni ambientali.
Filo logico lineare e concetto accattivante, ma sorge un’obiezione spontanea: esiste una controprova vissuta / vivente di organismo immortale che confermi questa ipotesi (in modo da poterne valutare l’eventuale insuccesso evolutivo)?
Anche in questo caso la risposta è controintuitiva: sono esistite e esistono tutt’ora specie immortali (in riferimento alla morte per senectus).
Il fatto che (allo stato dell’arte) il loro numero negli organismi pluricellulari sia incredibilmente esiguo, fornisce immediatamente il metro del successo evolutivo di questi sistemi viventi “eternamente giovani”.
Questi esseri immortali saranno l’argomento centrale della prossima sessione ”l’elisir di lunga vita” , grazie ai quali scopriremo uno dei meccanismi messi in atto dall’invecchiamento: la disattivazione di un enzima chiamato “telomerasi”
- “L’orologiaio cieco, creazione o evoluzione?” Mondadori, Milano 2003).
- Le invenzioni della vita. Le dieci grandi tappe dell’evoluzione di Nick Lane. Il Saggiatore
- Eisenbarth GS, Gottlieb PA, Autoimmune polyendocrine syndromes, in N. Engl. J. Med., vol. 350, n. 20, 2004, pp. 2068–79